E sia così per sempre nei secoli dei secoli, amen. Ancora una volta esco di casa, afferro le chiavi, la giacca di velluto marrone (sempre la solita, mi dici tutte le volte), un po’ di soldi ed una K7 tutta nuova da ascoltare. Chissà dove sei. Come sempre dovrò cercarti, fra casa, bar, case del popolo, appartamenti di amici, fidanzata ed ex-fidanzate. D’altronde è l’unica maniera per entrare in contatto con te, giacché al telefono non rispondi più. Parto, dopo aver salutato per la quarta volta i Parentes. In macchina, il mio rito, la giacca accasciata sul sedile posteriore, inserisco il frontalino dello stereo, accendo la macchina e mentre faccio manovra, inserisco la cassetta. Apro il finestrino, alzo il volume, ascolto il frusciare estasiante della cassetta, esco dal parcheggio e accelero nello stesso istante nel quale la musica incomincia ad assordarmi. Vrooom, direbbero i King Crimson.

Il mio viaggio serale inizia con “Bright Yellow Gun” delle bostoniane Throwing Muses. Musica dura ed alternativa, adatta ad una partenza veloce, soprattutto se in cerca di te. Le luci arancioni della periferia, se viste dalle colline che si abbassano verso la piana, sembrano un cimitero, i lumini di un camposanto. Il cielo. Quando ero piccolo, lo vedevo il cielo di notte, dal tetto di casa mia. Dalla finestra che si apriva in camera mia in mansarda. Ci dormo ancora e mi piace lasciare le persiane aperte. Anche se entra l’acqua a volte. Mi piaceva, dovrei dire. Ora vedo solo una nebbiosa cupola color mandarino. Il primo brano della K7 finisce quando sto per parcheggiare di fronte ad un bar del quartiere ancora aperto. Mi fermo a prendere un caffè, alto e corretto con l’anice. L’ho imparato da te. Dicevi che se lo fanno migliaia di pensionati, ci sarà pure un motivo. Ed io ti prendo sempre in giro pensando a quel che Freak Antoni dice delle mosche e della merda. Miliardi di esseri che mangiano escrementi tutti i giorni non possono avere torto.

Risalgo in macchina e la cassetta mi accoglie con i dEUS, un combo di rock belga. Europei, per questo culturalmente delusi, perdenti, romantici e spietati. Nonché geniali. Di quella creatività trasversale che si deve nutrire nell’humus atlantico, anglosassone e centralizzato, ma che sconfina, straborda ad ogni momento verso Sud, Est, all’interno della questione di voler essere nuovi e diversi senza voler essere alternativi. Che siano gli altri ad esserlo. Dalla musica di Aznavour agli scritti di Tondelli, dal crossover degli Urban Dance Squad ai films di Wenders. La musica, straziante e calda, mi permette di arrivare al bar dell’ospedale, o Caffè Virus, come lo chiamano gli avventori. L’isolata presenza di un barbone e di un annoiato e preoccupato barista mi dice che non sei lì per il tuo grappino popolare da mille lire.

Allora risalgo in macchina. Accendo lo stereo ed i Massimo Volume scaraventano la loro “Ultimo Dio”. Una canzone recitata che parla di un loser, un perdente, un lavastoviglie. La storia per niente americana di un ultimo fra gli ultimi della civiltà occidentale che per anni sacrificò la propria personalità e capacità poetica per faticare su pentole e stoviglie, massacrandosi di lavoro. La storia che si dipana fra suoni volutamente e spiralmente ripetitivi mi cattura così tanto che non mi rendo conto che ho oltrepassato casa tua di almeno un chilometro. Che palle abitare in periferia. Proprio lì in quel cimitero di lucine-arancio. Palazzi come paletti di un muro di recinzione, tutti uguali, tu-u-utti identici. E tristi nella maniera nella quale definiscono e segnalano la realtà che abita in questi conglomerati di cemento e sabbia. Migliaia di persone che li abitano che lottano con lo stipendio basso. Il figlio drogato, la moglie troia e il marito becco, la bambina che non mangia, lo stereo alto, la televisione guasta, la vicina pettegola, l’ospedale troppo lontano. La periferia triste dentro e fuori, anche per chi la sfiora dall’autobahn. Perché devi convenire con me che non è facile trovare casa tua quando ci si arriva la prima volta. Anzi, non lo era, fino a quando l’amministrazione comunale ha deciso di dipingere i casermoni con colori vivaci e squillanti, con un nome diverso sul portone, grande, enorme, che si veda bene dalla strada maestra. Abiti in Via Grazia Deledda, 5, interno 7 del Ciclamino 3, per via di un colorino rosato e pastello che gli è proprio (...hang the geometra comunale...).

Qualcuno dovrebbe spiegare come mai le case popolari son fatte come se ci dovessero andare ad abitare dei clown tristi in pensione, con quell’aria grigia e depressa ravvivata da quattro effetti da circensi da quattro soldi. Non è a volte meglio un bel grigio-cemento o nero-antracite? Dategli la coscienza di essere all’inferno e non semplicemente in un posto squallido. Perché dall’inferno ci si redime in fondo, dallo squallore no. Ci si ammala di squallore. E di certi colorini fessi. “Ultimo Dio” finisce proprio mentre parcheggio.

Scendo e mi ritrovo sul portone, coincidenza, con tua madre che sta tornando dal lavoro. “Signora!!!!” (Lo so che è signorina, e che tu sei figlio di un camionista “straniero”, ma l’educazione delle suore servirà pure a qualcosa...). “Damiano, come stai... che ci fai qui? È inutile che tu lo cerchi a casa”. Mi scuso di averla quasi spaventata, la saluto e risalgo in macchina. Accendo lo stereo e mi mangio la quinta caramella senza zucchero al pompelmo rosa. Dove sei? Mi investe mescolato al rumore del motore l’onda liquida ed acida del blues bianco dei Come. “I’m falling. Don’t look at me…” urlano.

Mi devo ricordare dove sei, dove sei. Chi sei magari. Parto quasi incosciente. Sono le nove e mezza. Approdo al Biliardo Ughi. In mezzo a questi gruppi di vecchini attorno ai tavoli dove virtuosi posapiano si avventurano in sponde, controsponde, per l’entusiasmo di queste groupies novantenni. Mentre la Matildona, questa specie di wrestler donna in minigonna rosa e tacchi che sembrano spine di istrice, dispensa cappuccini e vermouth a pioggia.

Esco e puzzo già di fumo dopo cinque minuti. L’aria fresca dell’Arno mi investe. Mi giro, Piazza della Libertà. L.I.B.E.R.T.A.S. Come dice lo scudo crociato sopra la porta del Biliardo. Le persone non sanno cos’è la libertà. E manco io. Me lo immagino cosa sia. Penso che tu sia libero, ora. Ma non so dove sei. Arrivo al campanello di Serena con negli orecchi la musica dei DADA, college rocker americani. Gradevoli ed ordinati come mi ricordo Serena. Con la sua mania per avere sempre tutto a posto, i maglioni nel cellophane. Le mie foto sul comò e quando viaggio ci mette davanti una candela. Che quando torno e la vedo, tocco ferro e tutto il resto. E ci scherziamo su. Ma lei la volta dopo la rimette. “Ehi, che ci fai qui?” Mi apre la porta del suo appartamento in San Niccolò sorridente e quasi sorpresa di gioia. “Lo sto cercando”. Si corruccia “Smettila, lascialo stare.” Ed io le dico che invece ti voglio trovare. Si arrabbia di botto e mi dice, va bene fai quello che vuoi, ti aspetto domani. Ma mentre chiude la porta vedo una lacrima che le scende dall’occhio destro. Lì per lì penso che sia allergia. Poi dopo due passi, mi rendo conto che più che arrabbiata, era addolorata che ti cercassi ancora una volta. Sarà l’effetto del sabato sera di quando deve studiare per l’esame e non può uscire, tutta presa a ripetere articoli del codice a memoria. Sai che non la trascuro. Mentre ha chiuso la porta ha detto, salutamelo se lo trovi... La città sciama sui viali cittadini in cerca di emozioni da consumare subito e da digerire poi con calma nel corso della settimana. Locali tutti pieni, macchine che si accavallano come gambe sulla sdraio. Se la mensa universitaria fosse aperta, registrerebbe il tutto esaurito. A Firenze, giri come un pazzo tutta la notte e ti trovi in diecimila cloni dello stesso posto, ovunque i soliti panini con i gamberetti, salsa rosa, funghi caldi, dai nomi ridicoli come Commedia di Porcini e Delirio Messicano. Bevi caipirinha e birra bitter inglese servita come birra rossa. Balli la salsa o ti fai stordire da commercial house inutile come le cinquecento lire nel carrello del supermercato. Tutto è già deciso e non si sa da chi. Non c’è verso di uscire dal rito, dal canalone dell’usanza. E della tribù notturna. Solo io e te a volte pensiamo di avercela fatta. Pane e prosciutto in qualche bar del contado. E poi a sedere nei campi sotto gli ulivi d’estate o in un parcheggio panoramico “In cima al mondo”. Sotto il loggiato della Chiesa di Cercina o nel silenzio perfetto delle colline sopra Monte Senario. A parlare, discorrere, discutere. A ricordare ed a rimembrare. Come diceva un lirico greco all’amico scomparso: “ Niente era più dolce e completo di quando la notte ci sorprendeva mentre ancora parlavamo sulle mura di Atene”. Firenze come Atene. Distrutta da una bomba culturale. E un sabato così era tutto nostro. Con una pisciata catartica sugli ulivi secolari. Come mandare in culo il mondo e tutto quel rito del sabato sera, che osservavamo dall’alto dei colli fiorentini in questa linea di lucine moventi. Tutti quei desideri indotti e quello sfoderare status symbols e ammennicoli vari. Al parcheggio sul lungarno mi accompagnano gli Yo Yo Mundi. “Andeira”. Andare. Popoli diversi, come nella loro canzone, che animano la notte ed ogni altra circostanza della giornata. Popoli diversi che si affrontano nella nostra città in questo scorcio di fine del mondo e del secolo. I rossi, bianchi, azzurri e verdi delle quattro contrade del calcio storico non bastano più. Ci vogliono altri colori nella paletta del caleidoscopio umano. I neri, i gialli, i cremisi. Ognuno con il desiderio di essere felice alla sua maniera o perlomeno con il desiderio di capire chi c’ha ragione, semmai qualcuno ce l’abbia. Tu no. Non avevi mai ragione, dicevi. Ascoltavi, e per questo ti tiravi via il torto e rimanevi con una sacrosanta ragione. E sei nel giusto anche ora. Nella maniera nella quale ti veli, si sveli e poi ti riveli. Come nella canzone dei Cure che ascolto ora, “A Forest”. Nella quale la ragazza appare lontano, tu corri e lei è scomparsa di nuovo. Il basso come il passo nella foresta notturna. Mentre salgo le curve verso Cercina, ascolto “Nightdrive” dei Walkabouts, una canzone su una corsa feroce e veloce di due serial killers lungo le strade notturne della provincia americana. Arrivo al piazzale, non c’è nessuno. E la segue “Nightswimming” dei REM. L’elegia del silenzio che si rompe nelle bracciate in una piscina notturna. Ad Alice Springs come a Viareggio. La canzone mi ha portato davanti al parcheggio di Trespiano, non so perché. Ho troppo sonno e solo voglia di tornare a casa. Dormirò qui. Trespiano, il cimitero di Firenze, negazione, esaltazione, clonazione macabra della viva cittadina laggiù. Nella valle d’Arno. Ma stanotte mi sembrano più pieni di vita e silente attesa i viali di cipressi del Cimitero Comunale che strade del carosello pre-domenicale.

Il sonno mi coglie, mi accomodo sul sedile posteriore della mia utilitaria verde, mentre nello stereo mi conciliano la riflessione, lo stordimento e il sonno liberatorio i CSI di “Fuochi nella Notte di San Giovanni”, le masse che si accalcano lungo il fiume, i popoli che sciamano cercando un segno ed un senso a quel rituale, un punto cui guardare. E segue la versione degli stessi di “Noi non ci saremo”, una rievocazione del fantasma dei Nomadi di Daolio.

Dove sei, dove sei, dove sei. Ora lo so. La mattina pungente mi coglie con uno spicchio di sole che filtra da un buco nel muro davanti. La luce come oro sui miei occhi. Alzo la testa, sono le cinque e mezza di mattina. I miei genitori saranno allarmati. O forse lo sapranno che sono con te. Solo ora ti vedo. La porta di ingresso del cimitero semiaperta mi ricorda di quella mattina di luglio che ti ha portato laggiù, in fondo al viale di cipressi ombrosi. Dicono che tu non abbia sofferto, ma ti sarai pur reso conto di morire in ospedale. Lo sapevi. Malattie infettive. Non mi hanno mai detto di cosa sei morto veramente. Infetto. No. Non potevi contagiare con altro se non con la tua forza ed il tuo coraggio. Ora ho capito. E so che anch’io sono malato più di te di un morbo che si chiama nostalgia e ricordo. Ogni sabato ripercorro tutte le tappe del nostro pellegrinaggio carnascialesco. Tanto che Serena si laureerà in pari se continua a studiare ogni fine settimana. Ma non smetterò finché tutto questo non sarà più necessario e sarà diventato solo rito ed abitudine. Qui, davanti alla tua tomba, ripenso alle parole di una canzone che ascoltavamo spesso insieme. Dei Diaframma. “Siberia”. La riascolterò ancora mentre tornerò a casa, dopo aver portato delle paste calde a Serena ed aver comprato il giornale per i miei genitori. Mentre torno all’altra casa. Mi giro ancora, vedo nella nebbia mattutina le ombre che diventano sempre più nitide ed il cielo che diventa un drappo celeste che sembra il manto della Vergine in un dipinto di Bellini. A domenica prossima amico.

“Ed oltre il muro il silenzio,

oltre il muro solo ghiaccio e silenzio...”

 

Nightdrive - by Cosimo Pacciani